IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Letti gli atti del procedimento penale sopraindicato nei confronti
 di  Sicurella  Pietro, nato a Torino il 24 aprile 1937 e residente in
 Bruino, via Monti, n. 1, in ordine al reato p. e  p.  dall'art.  659,
 secondo comma, del c.p., commesso in Bruino, il 10 marzo 1990;
                             O S S E R V A
    Sulla  scorta  della  denuncia  presentata  da  Feraudi Bruno, che
 lamentava  l'immissione  di  forti  rumori  prodotti  dai  macchinari
 utilizzati  per la lavorazione dalla General Plastic S.r.l. di Bruino
 e con il conforto di alcune misurazioni fonometriche eseguite  e  del
 sopralluogo effettuato in ore notturne dai carabinieri della stazione
 di  Piossasco,  il pubblico ministero chiedeva l'emissione di decreto
 penale a carico del Sicurella, quale responsabile della General Plas-
 tic S.r.l., per il  reato  indicato  in  epigrafe  e  questo  ufficio
 accoglieva la richiesta, emettendo decreto di condanna.
    L'imputato   presentava  rituale  opposizione  e,  nel  corso  del
 conseguente giudizio, il pretore rilevava d'ufficio la  nullita'  del
 decreto    penale    perche'    non    adeguatamente    motivato   e,
 conseguentemente, del decreto che dispone il giudizio in ossequio  al
 criterio delle nullita' derivate.
    Gli  atti, ancorche' restituiti dal pretore al pubblico ministero,
 ritornavano a questo ufficio, dal momento  che  l'organo  dell'accusa
 reiterava  la  richiesta  di  emissione  di  decreto  penale e questo
 giudice sollevava conflitto  di  competenza,  essendo  totalmente  in
 disaccordo  con  la  decisione  assunta  dal  pretore  per le ragioni
 esposte nel relativo provvedimento in atti.
    La Corte  di  cassazione,  con  la  acclusa  sentenza,  dichiarava
 l'inammissibilita'   del   proposto  conflitto  in  applicazione  del
 principio contenuto nel secondo comma dell'art. 28 del c.p.p.
    Alla luce della menzionata decisione della  Corte  di  cassazione,
 questo  giudice,  non  potendo  disattendere  il  provvedimento della
 suprema Corte, e' tenuto, di fatto,  ad  emettere  un  nuovo  decreto
 penale, sulla base del provvedimento del pretore, provvedimento che a
 chi  scrive appare errato e non conforme alle regole che disciplinano
 la competenza.
    Da qui la rilevanza della questione di legittimia' costituzionale,
 da proporre al vaglio della Corte costituzionale, che sembra  potersi
 ravvisare    nell'attuale    situazione    processuale.    Non   pare
 manifestamente infondato ritenere, infatti, che il principio  sancito
 nel  secondo  comma  dell'art. 28 del c.p.p., applicato dalla suprema
 Corte nel  caso  di  specie  con  una  valenza  addirittura  ampliata
 rispetto   alla   formulazione  letterale,  possa  essere  dichiarato
 illegittimo per violazione del dettato contenuto  nell'art.  3  della
 Costituzione.
    La  disposizione  contenuta  nella seconda parte del secondo comma
 dell'art. 28 del c.p.p. e' stata dettata  nell'intento  di  garantire
 una maggiore celerita' alla definizione del procedimento. Si legge, a
 tal  riguardo,  nella relazione al codice del Ministro guardasigilli:
 " .. Come si e' gia' accennato,  nel  comma  2  dell'art.  28  si  e'
 espressamente stabilito che non puo' sussistere conflitto tra giudice
 dell'udienza  preliminare  e giudice del dibattimento perche' in caso
 di contrasto prevale la decisione di quest'ultimo.
    Con questa esclusione, gia'  prefiguarata  nell'art.  23,  secondo
 comma, relativa all'incompetenza per materia rilevata dal giudice del
 dibattimento,  si  e'  voluto  sottolineare  che  la  disciplina  dei
 confliti mira  a  regolare  la  sfera  della  giurisdizione  e  della
 competena,  e  non  anche  i  dissensi  tra  gli  uffici  in ordine a
 situazioni diverse; in  questi  casi  l'interesse  ad  una  sollecita
 definizione  del  processo  e'  parso  preminente  sull'interesse del
 giudice a non essere vincolato dalla statuizione di un altro giudice,
 almeno nel caso  in  cui  il  giudice  'vincolante'  sia  quello  del
 dibattimento ..".
    Ed   invero,   il   criterio  della  massima  semplificazione  del
 procedimento, nell'intento di dare ad esso  modalita'  e  tempi  piu'
 semplici  e  rapidi,  e' esigenza espressa piu' volte dal legislatore
 delegante e non vi e' dubbio che essa possa essere soddisfatta  anche
 attraverso una disciplina piu' precisa ed agile riguardante le regole
 sulla  competenza,  tanto  che  lo  stesso  legislatore  delegante ha
 dettato alcune direttive a tal riguardo ed il legislatore delegato vi
 si e' attenuto,  ad  esempio  proprio  con  la  previsione  contenuta
 nell'art.  23  richiamata  dal Ministro nella relazione. In tal caso,
 pero', con la norma in parola - proprio nell'intento di una  maggiore
 speditatezza   -   si  e'  stabilito  che  il  processo  vada  avanti
 realizzando tale  effetto,  attraverso  la  trasmissione  degli  atti
 direttamente  al  giudice competente, sulla base di una dichiarazione
 di  incompetenza  fatta  dal  giudice  del  dibattimento,   ancorche'
 pronunciata  in  contrasto  con  quanto  a  tal  riguardo ritenuto in
 precedenza dal giudice dell'udienza preliminare.
    Per  quanto,  invece, riguarda il problema che si intende proporre
 in questa sede e, cioe', il caso in cui sia richiesta  l'adozione  di
 un provvedimento ovvero sia necessario lo svolgimento di un'attivita'
 da  parte  di  un  giudice  che  non  ravvisi  che il provvedimento o
 l'attivita' richiesti appartengano alla propria competenza, ritenendo
 che essi siano assegnati alla competenza di altro giudice, e' proprio
 attraverso la previsione della possibilita'  di  sollevare  conflitto
 negativo  di  competenza che si riesce ad evitare che il procedimento
 rimanga paralizzato. La  decisione  della  Corte  di  cassazione,  in
 conseguenza   della  proposizione  di  un  conflitto  di  competenza,
 adottata  per  giunta  con  l'autorevolezza  e   la   terzieta'   che
 contraddistinguono  il  supremo collegio, consente di ridare anche in
 tempi  relativamente  brevi   nuovo   impulso   processuale   ad   un
 procedimento  diversamente  destinato  a gravi difficolta', se non ad
 una completa paralisi. Ed infatti, proprio  a  tale  criterio  si  e'
 sempre   ispirato   il   legislatore  nell'assegnare  alla  Corte  di
 cassazione il compito di dirimere i conflitti di competenza e  non  a
 caso  il  legislatore  delegante,  per  il  quale  il  problema della
 semplificazione del procedimento assume primaria importanza, non solo
 non ha dettato alcuna restrizione a tal riguardo,  ma  anzi,  con  la
 direttiva  n.  15,  ha previsto un'ampia possibilita' di ricorso allo
 strumento del conflitto di giurisdizione e di competenza per tutte le
 parti. Il proposito, in altri termini, di  raggiungere  l'effetto  di
 una   maggiore   speditezza   processuale  attraverso  la  previsione
 contenuta nella seconda parte del secondo comma  dell'art.    28  del
 c.p.p.  e'  riconducibile  soltanto  all'iniziativa  del  legislatore
 delegato e, se si ha riguardo ai casi concreti fin qui  verificatisi,
 non   pare  che  tale  intento  possa  ritenersi  realizzato.  A  tal
 proposito, al contrario, va rilevato come tale disposizione non abbia
 goduto di grande favore proprio tra  i  soggetti  cui  la  stessa  e'
 destinata,  con  la  conseguenza di notevoli appesantimenti dei tempi
 del processo, se si ha riguardo, ad  esempio,  ai  numerosi  casi  di
 proposizione  di  conflitto ed alle altrettanto numerose questioni di
 legittimita' costituzionale sollevate in ordine all'art. 28,  secondo
 comma,  del  c.p.p. dinanzi alla Corte costituzionale, che si e' gia'
 cinque volte pronunciata  con  ordinanze  di  inammissibilita'  della
 questione.
    Anche  il legislatore del 1988, d'altra parte, deve aver avvertito
 la  fondamentale  importanza,  per  il  sistema  processuale,   della
 previsione  di  un  istituto  quale rimedio ai possibili contrasti in
 materia di competenza, se e' vero che, proprio al fine di  consentire
 al  procedimento il suo normale sviluppo, non solo ha previsto i casi
 "tipici" di conflitto, regolati dal primo comma dell'art. 28,  ma  ha
 anche  introdotto un generale criterio di ampliamento di applicazione
 dell'istituto, estendendo la sfera di previsione anche a tutti i casi
 "analoghi", con la  disposizione  contenuta  nella  prima  parte  del
 secondo  comma  dello  stesso  articolo,  in  tal  modo  piu'  o meno
 ricalcando  il  precedente  sistema  normativo.  Senonche'  il  nuovo
 legislatore  -  cosi'  come  e'  dato  rilevare  nella relazione - ha
 avvertito la necessita' di porre un freno all'eccessivo ricorso  allo
 strumento del conflitto, introducendo due sostanziali innovazioni. Da
 una  parte,  i  casi  di conflitto sono stati limitati ai soli organi
 della  giurisdizione,  giacche'  le   disposizioni   relative   fanno
 riferimento  esclusivamente  ai  giudici  e,  dall'altra parte, si e'
 introdotto appunto il principio della prevalenza della decisione  del
 giudice   del   dibattimento   su  quella  del  giudice  dell'udienza
 preliminare, proprio come  eccezione  all'allargamento  dei  casi  di
 conflitto  voluto e disciplinato nel medesimo secondo comma dell'art.
 28 del c.p.p.
    Il primo aspetto, e cioe' l'esclusione della configurabilita'  dei
 casi  di  conflitto  tra  rappresentanti  del  pubblico  ministero  e
 giudici, esula completamente dall'oggetto della questione che qui  si
 esamina  e  va,  percio',  tralasciato. La seconda esclusione, che e'
 invece rilevante in questa sede, appare discutibile e contraddittoria
 in relazione alle stesse scelte operate dal legislatore.
    Si e' gia' messo in rilievo come  con  la  previsione  in  parola,
 attraverso l'abolizione dei casi di conflitto di competenza in ordine
 ad  eventuali  dissensi  tra giudici appartenenti al medesimo ufficio
 giudiiario,  si  sia  inteso  conseguire  al  fine   della   maggiore
 speditezza  nella  definizione  del  processo.  Tale intento e' stato
 espressamente dichiarato dal  Ministro  nella  sua  relazione  ed  ha
 trovato  autorevole riconoscimento anche nelle piu' recenti decisioni
 in materia della Corte costituzionale (ordinanze  nn.  13  e  15  del
 1992,  in  quest'ultima si legge: " .. la norma impugnata prevede una
 specifica forma di soluzione dei dissensi tra  giudici  dello  stesso
 ufficio  giudiziario  al  fine  di rendere spedita la definizione del
 processo ..".
    Ebbene, la ragione che ha ispirato il legislatore nel  dettare  la
 norma  di cui si tratta, da una parte, e' fondata sul presupposto che
 all'interno degli uffici giudiziari si creino parecchi  contrasti  e,
 pero',  che  essi siano tali da dover rimanere sul piano del semplice
 dissenso e da non meritare il ricorso allo  strumento  del  conflitto
 dinanzi alla Corte di cassazione e, dall'altra parte, suppone che con
 questo  rimedio il processo, pur in presenza dei menzionati dissensi,
 possa raggiungere piu' facilmente e piu' agilmente  la  sua  naturale
 definizione.   Tale  impostazione,  peraltro,  non  appare  corretta,
 giacche' il presupposto non sembra corrispondente alla situazione re-
 ale e lo scopo non pare realizzabile nel modo imposto dalla norma.
    Il  riferimento  agli  uffici,  infatti,  appare  inutile  e   non
 meritevole  di  autonoma e cosi' rilevante considerazione. I giudici,
 per espressa previsione sia del legislatore delegante, sia di  quello
 delegato,  si  distinguono  per  le  funzioni  svolte nell'ambito del
 procedimento e non per l'appartenenza ad uno stesso o ad  un  diverso
 ufficio  giudiziario.  Quest'ultimo aspetto, se mai, assume rilevanza
 per  l'ordinamento  giudiziario,  ma   non   certamente   sul   piano
 processuale.  Si  puo',  anzi,  rilevare  a  tal  riguardo,  come  il
 legislatore delegante  abbia  inteso  garantire  a  ogni  giudice,  a
 seconda  delle  relative  funzioni  di  volta in volta effettivamente
 svolte, analoga e pari dignita',  indipendentemente  dall'ufficio  di
 appartenenza  e  non  abbia  assolutamente previsto il criterio della
 prevalenza della decisione dell'uno su quella dell'altro,  a  parita'
 di  grado  di  giudizio,  mentre  sia  stato  piu'  volte ribadito il
 concetto della distinzione delle funzioni, ai fini della garanzia  di
 massima obiettivita' del giudizio.
    Per  quanto  riguarda,  poi,  i  contrasti  o dissensi, intanto va
 rilevato che non corrisponde al vero il presupposto  che  nell'ambito
 dello  stesso  ufficio  giudiziario essi sorgano numerosi o in numero
 maggiore di quanto non avvenga se gli uffici  di  appartenenza  siano
 diversi, giacche' - se mai - avviene esattamente il contrario, se non
 altro  perche',  all'interno  dello  stesso ufficio, il piu' facile e
 costante  confronto  sulle  problematiche  giuridiche  e  giudiziarie
 favorisce  l'uniformita'  delle  opinioni  e  delle convinzioni. Cio'
 nonostante, pur in presenza di ineliminabili diversita' di giudizi da
 parte di giudici appartenenti allo stesso ufficio, il problema sembra
 posto inesattamente.
    Come si e' gia' messo in rilievo  in  precedenza,  l'istituto  del
 conflitto  e  la  previsione  che  a  dirimerlo  sia  il giudice piu'
 autorevole e di rango piu' elevato dell'ordinamento non sono esigenze
 che  sorgono  e  servono  agli  interessi   dei   giudici,   ma   del
 procedimento.  Quando,  quindi,  nella  relazione quasi prospetta una
 contrapposizione tra "l'interesse ad una  sollecita  definizione  del
 processo"  e  "l'interesse  del  giudice a non essere vincolato dalla
 statuizione di un altro giudice", il Ministro fa un'affermazione  che
 non   puo'   trovare   alcun   riconoscimento  sul  piano  giuridico.
 Nell'ottica processuale non esiste un interesse del  giudice  diverso
 da   quello  del  corretto  svolgimento  del  procedimento  e,  anzi,
 quest'ultimo e' l'unico interesse che  il  giudice  deve  perseguire.
 Anche  quello  della  sollecita  definizione  del  processo,  essendo
 connesso al corretto svolgimento del procedimento,  e'  un  interesse
 del  giudice  e  non  puo'  essere,  percio',  prospettato  come  una
 categoria autonoma e quasi contrapposta a quella  dell'interesse  del
 giudice.
    Ne'  il  pericolo  di  un  ricorso  distorto  e  in  qualche  modo
 provinciale allo strumento del conflitto di  competenza,  pur  sempre
 possibile  da parte di qualcuno, potrebbe convincere della necessita'
 dell'abrogazione dell'istituto medesimo, sia perche' non e' detto che
 cio' avvenga solo in caso  di  contrasti  tra  giudici  dello  stesso
 ufficio,  potendosi  escludere  per  gli  altri  casi  di  conflitto,
 regolarmente ammessi dal legislatore, sia  perche'  il  rimedio  alle
 eventuali  deviazioni e' costituito dallo stesso giudizio della Corte
 di cassazione, chiamata a dirimere i conflitti.
    Ma c'e' di piu'. La necessita' che sia la Corte  di  cassazione  a
 decidere  gli eventuali conflitti tra giudici e' dettata non soltanto
 dall'interesse  di  una  definitiva  e  sollecita   soluzione   della
 questione, avendo la decisione della suprema Corte valore cogente per
 i   giudici   in   conflitto   e   per  tutti  i  giudici  che  anche
 successivamente dovessero  essere  chiamati  a  svolgere  le  proprie
 funzioni  in  quello  stesso  procedimento, ma essa risponde anche al
 piu' generale e ampio interesse all'uniformita' della  giurisdizione.
 Se,  in  altri  termini, il contrasto rimane circoscritto ai rapporti
 giudice dell'udienza preliminare-giudice  del  dibattimento,  con  la
 prevalenza  della  decisione  di  quest'ultimo,  piu'  elevato  e' il
 rischio che, a seconda dei singoli procedimenti, analoghi problemi  e
 aspetti   del   processo,   trovino  di  volta  in  volta  diverse  e
 contrastanti soluzioni. Le decisioni del supremo  Collegio,  infatti,
 non  raggiungono  soltanto  l'immediato scopo di dare una specifica e
 vincolante risposta al problema proposto, ma anche quello di  dettare
 l'indirizzo  e  di  fungere da riferimento per la soluzione di futuri
 casi analoghi.
    E, anche a tal riguardo, non pare che i rapporti tra giudici dello
 stesso ufficio, che esercitano, pero', distinte e specifiche funzioni
 nell'ambito  del  procedimento,  possano  essere  ritenuti  di  cosi'
 secondaria portata, da  non  meritare  la  tendenza  del  legislatore
 all'uniformita'   delle  relative  decisioni  e  da  essere,  invece,
 assoggettati ad una disciplina diversa da quella prevista nel caso in
 cui i giudici non appartengano allo stesso ufficio giudiziario.
    La previsione contenuta nella  seconda  parte  del  secondo  comma
 dell'art.  28  del  c.p.p.,  insomma,  appare  fondata su ragioni non
 corrispondenti alla realta' processuale, non rilevanti  e  determina,
 invece,  un'irragionevole disparita' di trattamento in situazioni che
 appaiono sostanzialmente analoghe.
    La Corte costituzionale, d'altra parte, gia' piu' volte chiamata a
 verificare  la  legittimita'  costituzionale  della  disposizione  in
 parola,  come  in precedenza ricordato, ha escluso che essa contrasti
 con il dettato degli artt. 101, secondo comma, 76, 2, 3  e  97  della
 Costituzione. Ma relativamente all'eventuale contrasto con i principi
 contenuti  nell'art.  3  della Costituzione non risultano proposti al
 vaglio della Corte specifici  profili,  cosi'  come  -  del  resto  -
 rilevato dallo stesso Organo della Consulta nell'ordinanza n. 254 del
 1991.
    Vale    la    pena,   allora,   di   sottolineare   la   manifesta
 irragionevolezza e  la  palese  incoerenza,  sul  piano  sistematico,
 creato   dalla  norma  in  discussione,  per  tutto  quanto  fin  qui
 considerato.
    Vi  e',  poi,  ancora  un   altro   aspetto   di   incoerenza   ed
 irragionevolezza  che  discende dalla concreta e pratica applicazione
 della norma medesima, che  in  tal  modo,  tra  l'altro,  contraddice
 proprio  lo  scopo  della  speditezza  nella definizione del processo
 voluto  conseguire   dal   legislatore   con   l'introduzione   della
 disposizione di cui si tratta.
    L'aver  previsto  la  prevalenza  della  decisione del giudice del
 dibattimento,  in  caso  di  contrasto   con   quella   del   giudice
 dell'udienza  preliminare,  non elimina la possibilita' di stallo del
 processo,   a   maggior   ragione   se   tale   disposizione    venga
 interpretativamente  estesa  a  tutti  i  casi  di  contrasto  tra la
 decisione del giudice del dibattimento e quella del  giudice  per  le
 indagini preliminari, quando quest'ultimo - come nel caso di specie -
 provveda  a  disporre il giudizio anche senza il tramite dell'udienza
 preliminare. Questa, del  resto,  e'  la  prevalente  interpretazione
 della  Corte  di  cassazione,  ancorche'  non univoca, e in tal senso
 sembra orientata pure la  Corte  costituzionale,  forse  perche',  se
 cosi'  non  fosse,  si  creerebbe  nel  sistema  per  un  altro verso
 un'ingiustificata ed irragionevole disparita' di disciplina.
    Ebbene, ancora una volta non si ritiene di  poter  concordare  con
 quanto  affermato  dal Ministro nella Relazione, giacche' il richiamo
 all'art. 23 del codice di procedura penale che detta disposizioni  in
 tema di competenza non pare pertinente.
    Come  gia'  rilevato, nel caso di dichiarazione di incompetenza da
 parte del giudice del dibattimento,  gli  atti  vengono  direttamente
 trasmessi  al  giudice  ritenuto  competente,  per  cui  il  processo
 prosegue  regolarmente,  rimanendo,   poi,   assegnata   al   giudice
 destinatario  degli  atti stessi la libera valutazione in ordine alla
 opportunita' di  condividere  la  decisione  adottata  circa  la  sua
 dichiarata  competenza  ovvero  di sollevare conflitto - questa volta
 perfettamente  ammissibile  -  investendo della questione la Corte di
 cassazione.
    Nel caso, invece, in cui il giudice del dibattimento  dichiari  la
 nullita' di un atto compiuto dal giudice per le indagini preliminari,
 il  procedimento regredisce in forza della disposizione contenuta nel
 terzo comma dell'art. 185 del c.p.p. e gli atti ritornano  nuovamente
 al  giudice  per  le indagini preliminari, ai fini della rinnovazione
 dell'atto dichiarato nullo. In tal caso,  allora,  qual'e'  l'effetto
 del   principio   di  prevalenza  della  decisione  del  giudice  del
 dibattimento? Certamente la disposizione in parola impone al  giudice
 per  le  indagini  preliminari la rinnovazione dell'atto, alla luce -
 appunto - del predetto principio, ma cio' significa anche che  l'atto
 dichiarato  nullo  deve  essere  rinnovato  seguendo  le  indicazioni
 dettate dal giudice del dibattimento? Puo' la norma in parola  essere
 interpretata in maniera cosi' cogente tra giudici di pari grado? E se
 nel   provvedimento   dichiarativo   della   nullita'  mancassero  le
 necessarie indicazioni per evitare che l'atto venga rinnovato in modo
 da apparire nuovamente nullo  al  giudice  del  dibattimento?  E  se,
 trattandosi  di  nullita'  insanabile,  in  altri  gradi  di giudizio
 venisse nuovamente dichiarata la nullita' del medesimo atto,  ma  per
 ragioni  opposte  a  quelle  ritenute dal giudice del dibattimento di
 primo grado, che di certo non  puo'  vincolare  i  giudici  di  grado
 superiore?  Cosa  dovrebbe  fare,  in  questo caso, il giudice per le
 indagini preliminari, al quale ancora una volta andrebbero restituiti
 gli atti per la rinnovazione dell'atto dichiarato nullo? Potrebbe  il
 giudice   per  le  indagini  preliminari,  in  questo  secondo  caso,
 sollevare conflitto di competenza con il giudice di secondo grado - e
 sembrerebbe di si' - e sulla base di quale logica processuale?  E  se
 il   giudice   per  le  indagini  preliminari  dinanzi  al  quale  il
 procedimento regredisce avesse piu' soluzioni  possibili,  quale  tra
 esse  dovrebbe  scegliere  in mancanza di specificazione da parte del
 giudice del dibattimento? E tutto cio' - ovviamente -  senza  neppure
 voler  considerare  che il provvedimento del giudice del dibattimento
 potrebbe essere palesemente errato.
    Qualsiasi risposta si voglia dare alle domande proposte,  in  ogni
 caso  conseguirebbe  una  costruzione  di  un sistema processuale del
 tutto  anomalo,  con  riguardo  alle  ordinarie  regole  relative  ai
 rapporti   tra   giudici   e   rispettivi   provvedimenti  e  percio'
 irragionevole e incoerente, soprattutto se si considera che  un  tale
 sistema non pare neppure in grado di raggiungere il fine per il quale
 e'  stato  previsto e introdotto. La speditezza della definizione del
 procedimento si raggiunge  con  l'introduzione  di  regole  semplici,
 chiare,   di   agevole   applicazione   e   di   sicura   e   univoca
 interpretazione,  non  attraverso  l'ingiustificata   ed   immotivata
 assegnazione  ad  un giudice, piuttosto che ad un altro, di poteri di
 fatto non disciplinati  dalla  legge,  attesa  la  genericita'  della
 disposizione, e sostanzialmente sottratti al controllo della Corte di
 cassazione.  L'esperienza  giudiziaria insegna che in questi casi non
 si raggiunge una piu' celere definizione del processo, bensi' aumenta
 solo il rischio di abusi e degenerazioni.
    Per quanto attiene ai profili della questione,  se  rapportata  al
 caso  concreto,  va  rilevato  come  il  pretore  non  avrebbe potuto
 dichiarare la nullita' del decreto penale,  ne'  -  meno  che  mai  -
 rilevare  tale nullita' d'ufficio, senza che essa fosse dedotta dalle
 parti.
    Relativamente  al  decreto  penale,  al pretore spetta soltanto il
 potere di valutazione assegnatogli dal terzo comma dell'art. 464  del
 c.p.p.  e  niente  di  piu'.  Proprio  in ordine alla motivazione del
 predetto decreto, anzi, e cioe' con riguardo all'aspetto attinente al
 merito della  decisione,  al  pretore  non  spetta  alcun  sindacato,
 giacche'  in  ordine al fatto contestato, la prova dovra' formarsi ex
 novo nel corso del dibattimento.
    Il  pretore,  invece,   si   e'   comportato   come   un   giudice
 dell'impugnazione,  con poteri di merito, per giunta ben piu' ampi di
 quelli assegnati ai giudici di grado superiore, normalmente  limitati
 dall'effetto devolutivo dell'impugnazione.
    In  secondo  luogo,  pur  a  voler  concedere che al pretore fosse
 consentito di rilevare la nullita' del decreto penale, ugualmente non
 si comprende come mai egli avrebbe potuto dichiarare la nullita'  del
 decreto che dispone il giudizio. Quest'ultimo non e' atto che dipende
 o  si  fondi  sul  decreto  penale,  anzi  concettualmente ad esso si
 contrappone. Il decreto penale e' una decisione di  condanna,  mentre
 con   il   decreto   che   dispone   il   giudizio   si  da'  l'avvio
 all'accertamento dibattimentale.
    Anche in caso di dichiarata nullita' del decreto penale,  insomma,
 non  avrebbe  potuto essere rilevata la nullita' derivata del decreto
 che dispone il giudizio  che,  se  mai,  e'  la  diretta  conseguenza
 dell'atto di opposizione dell'imputato.
    Quest'ultimo,   inoltre,   nel  caso  di  specie,  ha  chiaramente
 manifestato la volonta' di  difendersi  nel  merito,  non  accettando
 alcun  giudizio  di  condanna  e  neppure chiedendo di essere ammesso
 all'oblazione che, quando come  in  questo  caso  consentita,  e'  il
 rimedio  piu'  semplice e meno gravoso per chi voglia far chiudere il
 procedimento pendente a suo carico,  con  l'estinzione  del  relativo
 reato.
    L'imputato,  invece,  dopo  l'opposizione,  non  solo non ha fatto
 alcuna richiesta di procedimenti speciali, ma ha  chiesto,  anzi,  al
 pretore   l'ammissione  all'esame  del  proprio  consulente  tecnico,
 indiscutibilmente palesando la sua volonta' di difendersi nel  merito
 nel corso del dibattimento.
    In  applicazione  della  regola  di prevalenza della decisione del
 giudice del dibattimento, questo  giudice,  sia  pure  con  una  piu'
 articolata  motivazione,  dovrebbe - a questo punto - emettere ancora
 una volta il decreto penale e cio' - francamente - appare  del  tutto
 irragionevole,   dal   momento  che  e'  piu',  che  prevedibile  che
 l'imputato  presentera'   sicuramente   opposizione,   chiedendo   la
 celebrazione del dibattimento, al fine di riportarsi nuovamente nella
 analoga situazione processuale che si era gia' instaurata nel momento
 in  cui  il  pretore  -  di  sua  iniziativa  -  provvedva, invece, a
 determinare la regressione del procedimento.  E  che  da  tutto  cio'
 consegua,   poi,   il   risultato  della  maggiore  speditezza  nella
 definizione del processo, appare quanto meno discutibile.
    Ma il pretore ha commesso ancora un altro errore  e,  cioe',  dopo
 aver  dichiarato  la  nullita'  del  decreto penale e del decreto che
 dispone il giudizio, invece di ordinare la trasmissione degli atti  a
 questo giudice dinanzi al quale si sarebbe verificata la nullita', ai
 fini    della    rinnovazione    dell'atto   dichiarato   nullo,   ha
 ingiustificatamente  disposto  la restituzione degli atti al pubblico
 ministero, che  ha  presentato  a  questo  giudice  per  le  indagini
 preliminari  una  nuova  richiesta  di  emissione di decreto penale a
 carico dell'imputato.
    Orbene, come va inteso in questo caso il principio  di  prevalenza
 della  decisione  del  giudice  del  dibattimento? Questo giudice, in
 altri termini, rimane vincolato solo dalla dichiarazione di  nullita'
 ed  e',  percio',  necessariamente  tenuto  all'emissione del decreto
 penale oppure, sempre in ossequio  alla  decisione  del  giudice  del
 dibattimento  di  restituzione  degli  atti  al  pubblico  ministero,
 potrebbe liberamente valutare la  nuova  richiesta  di  emissione  di
 decreto  penale,  magari  decidendo  di non accoglierla? Quest'ultima
 soluzione, tra l'altro, inducendo il pubblico ministero  ad  emettere
 il  decreto  di  citazione  a giudizio, consentirebbe di eliminare le
 lungaggini della fase intermedia, sicura - come appare - la  volonta'
 dell'imputato di difendersi nel merito nel corso del dibattimento. Ma
 essa,   oltre   ad  apparire  sistematicamente  errata  e  scorretta,
 costituirebbe  anche  una  palese  violazione  alle  regole   imposte
 dall'art.   185   del   c.p.p.,  con  il  quale  la  regressione  del
 procedimento e' prevista ai soli fini  della  rinnovazione  dell'atto
 dichiarato  nullo  e risulterebbe, percio', incoerente con il sistema
 processuale.
    Tale situazione, pero, e' il frutto della  insindacabilita'  della
 decisione  del  giudice  del  dibattimento  e  consegue dalla diretta
 applicazione del principio contenuto nella seconda parte del  secondo
 comma dell'art. 28 del c.p.p.
    Ritenuto,  pertanto, che la disposizione in parola contrasti con i
 criteri di coerenza e ragionevolezza,  piu'  volte  ricondotti  dalla
 Corte  costituzionale  al  dettato  dell'art.  3  della Costituzione,
 determinando ingiustificate disparita' di trattamento  in  situazioni
 sostanzialmente  analoghe  e  che,  di  conseguenza,  gli atti devono
 essere  trasmessi  alla  Corte  costituzionale  per  il  giudizio  di
 legittimita'.